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Il paradosso della vecchiaia di Umberto Galimberti cosa rivela?

Una risposta alla seconda delle due domande che il Filosofo non si fa


06/09/2017

di Andrea di Furia

La tecnologia medica di oggi sta facendo baluginare davanti agli occhi di un’addormentata Umanità la possibilità dell’immortalità non più per via mistica, bensì tecno-medica e farmacologica.

I 10 vaccini obbligatori della Ministra Lorenzin oltre all’ovvio “metterci le mani” dei produttori nasce da questa idea malata che fa il paio con i 150 anni di vita media preconizzati dall’ineffabile Silvio Berlusconi.

In modo bypartisan dorme lui, dorme lei: il problema per tutti noi amministrati (anche noi dormienti, naturalmente) è che pur essendo due analfabeti sociali di ritorno oggi alternativamente loro (e i rispettivi epigoni) gestiscono le leve del potere.

Naturalmente sentirsi missionari nobilita entrambi, ma non si accorgono che questa dogmatica “immortalità” in cui credono come le Beghine nelle varie religioni… non è “un pensiero” ma una “parola vuota”, uno slogan pubblicitario: che certo non guasta l’appetito a chi è anche a caccia di voti elettorali per dare un senso, messianico quando non economico, alla propria vita.

L’allungamento della vecchiaia (idea malata del Berlusconi) ha anche un’altra faccia oltre a quella degli slogan: quella della realtà concreta, che nell’Italia politica post bellica sul piano istituzionale è stata colta soltanto dal compianto e tutt’ora incompreso Adriano Olivetti.

Realtà concreta che riguardo all’immortalità vaccinica (idea malata della Lorenzin) si esprime prima o poi con quegli effetti collaterali – come la crescita costante nella popolazione delle allergie, di intolleranze alimentari prima inesistenti, di nuove malattie ecc. che poi corrispondono all’indebolimento inevitabile di un sistema immunitario bombardato artificialmente e “a random” dai nostri apprendisti stregoni incapaci di vero “pensiero medico” ma incantati dagli slogan dei tecnici - da sempre opportunamente imprevisti o negati da una Scienza medica inevitabilmente registrata [data l’identica struttura antisociale “a 1Dimensione economica predominante” del sistema mondiale e locale attuale] sul libri paga delle Società farmaceutiche quotate in Borsa valori.

Realtà concreta che riguardo all’artificiale aumento farmacologico, ospedaliero, trapiantistico e protesico della tecnologia medica attuale si sta collateralmente esprimendo sul piano sociale nella lotta generazionale padri-figli in ambito lavorativo; nella incongruenza tragica tra il feroce vampirismo del Mercato finanziario attuale e la mancanza di fondi per il welfare; nello strabismo autolesionista della persona stessa che aumentando artificialmente la sua possibilità di vita si vede parallelamente danneggiato (legge Fornero) rispetto al proprio ritardato futuro pensionistico.

Aumento quantitativo di età cui non corrisponde un aumento qualitativo, bensì piuttosto un triplice peggioramento qualitativo per il Vecchio dei nostri tempi rispetto:

  1. alla vita culturale personale, per incapacità di adattamento del Vecchio alla velocità del progresso tecnologico,
  2. alla vita politico-sociale nella comunità, col Vecchio come peso fiscale per la comunità,
  3. alla vita economica sul territorio, col Vecchio come troppo costosa “materia ultima”.

 


È questo il paradosso della vecchiaia denunciato da Umberto Galimberti nel suo saggio I Miti del nostro tempo che suscitava in noi due domande spontanee - che il nostro apprezzato Filosofo non si pone per quel problemino chiave del pensiero scientifico moderno [il non saper andare oltre il gradino della denuncia sociale per incapacità di cogliere la realtà sociale concreta] di cui spesso abbiamo trattato su questa rubrica – necessarie per uscire dal tragico vicolo cieco della mera sterile denuncia, filosofica o sociologica che sia.

Alla prima abbiamo già dato una risposta, e per dare una risposta alla seconda dobbiamo introdurre due premesse essenziali, che estraiamo da un’altra parte del preziosissimo libro di Galimberti, che denomina Miti collettivi per distinguere questi ultimi dai Miti personali (come quello della Vecchiaia):

  • a) la Tecnologia non è più un’appendice al servizio della Scienza, ma ne è l’essenza (Il Mito della tecnica, dove dimostra inappuntabilmente come la Scienza odierna in realtà è ormai mera Tecnologia autoreferenziale):

Galimberti: «Siamo soliti considerare la tecnica come uno strumento a disposizione dell’uomo, quando invece la tecnica oggi è diventata il vero soggetto della storia, rispetto al quale l’uomo è ridotto a funzionario dei suoi [della tecnica] apparati. (…) Se la tecnica, come osserva Emanuele Severino, è la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, la tecnica non è più un mezzo, ma è il primo fine da raggiungere per poi poter perseguire tutti gli altri scopi che, in assenza del dispositivo tecnico, resterebbero sogni. (…) Tutto ciò non è esente da rischi perché, come ci ricorda Platone [nell’Alcibiade minore] le tecniche sanno come si devono fare le cose ma non sanno se e perché debbano esser fatte».

Anche la tecnica medica soggiace a questa legge del non sapere né se e neppure perché fare le cose, in quanto rinchiudendosi “nel sapere come” limita astutamente la propria responsabilità alla mera perfetta esecuzione - della procedura medica che aumenta la vecchiaia come degli ordini ministeriali che impongono le vaccinazioni obbligatorie - e c’è responsabilità solo nei confronti del proprio diretto superiore, ma senza alcuna preoccupazione (culturale, politica od economica) in ordine agli effetti della propria azione.

Effetti collaterali che sono una produzione caratteristica della Tecnica tanto che si è modificata la stessa mentalità dello scienziato, da finalistica (indago per uno scopo) a procedurale (indago per indagare).

Il potenziale vantaggio che si può ottenere da questa indagine tipicamente ’ndo cojo cojo - che nella Società gassosa di oggi non è più culturalmente antropologico, solo economicamente utilitaristico – non è mai ricercato al di fuori della mera esecuzione procedurale che di default non conosce gli scopi finali, e se mai li conoscesse (bomba atomica) non se ne riterrebbe responsabile: “It’s my job” la risposta secca di chi l’ha sganciata su Hiroshima e Nagasaki. Se poi un vantaggio accade per caso, tanto meglio, verrà opportunamente monetizzato.

Denaro che per l’autoreferenzialità tecnica è una sovrastruttura, un mero optional. E il rapporto tra denaro che ne permette l’uso e Tecnica che se ne serve per i suoi scopi - rapporto che ancor oggi sembra permanere così - è destinato a rovesciarsi presto non solo a causa dell’incontrollabilità della specializzazione tecnica lasciata a sé [non temperata né dalla Cultura né dalla Politica, che non ne hanno le competenze], ma anche a causa dell’inosservata strutturazione “a 1D” del sistema sociale attuale che sopporta la dualità solo se temporanea e favorisce l’unilateralità più smaccata, antisociale e disumana.

  • b) Il progresso tecnologico ha un effetto antropologico distruttivo (Il mito delle nuove tecnologie, dove dimostra come nella passività imposta dai mezzi di comunicazione moderni l’individualità venga degradata, e si modifichi la razionalità umana):

Galimberti: «… la radio, la televisione, il computer, il cellulare ci plasmano qualunque sia lo scopo per cui li impieghiamo, perché una trasmissione televisiva edificante e una degradante, per diversi che siano gli scopi a cui tendono, hanno in comune come osserva Günther Anders: “il fatto che noi non vi prendiamo parte, ma ne consumiamo soltanto la sua immagine”. Il “mezzo” indipendentemente dallo “scopo”, ci istituisce come spettatori e non come partecipi di un’esperienza o come attori di un evento. (…) E così, sotto la falsa rappresentazione di un computer personale, ciò che si produce è sempre più l’uomo di massa: e per generarlo non occorrono maree oceaniche, ma [grazie al personal computer] oceaniche solitudini. (…) Tutto ciò non dipende dall’uso che facciamo dei mezzi, ma dal fatto che ne facciamo semplicemente uso: per cui non gli scopi a cui sono preposti i mezzi, ma i mezzi come tali trasformano l’immagine in realtà e la realtà in fantasma. (…) Il mondo può diventare illeggibile per overdose di informazioni e l’uomo può perdere il bene più prezioso che è la capacità di fare esperienza. (…) L’homo sapiens, capace di decodificare segni ed elaborare concetti astratti è, come dice Raffaele Simone, sul punto essere soppiantato dall’homo videns che non è portatore di un pensiero, ma fruitore d’immagini con conseguente “impoverimento del capire”… E com’è noto, una moltitudine che “non capisce” è il bene più prezioso di cui può disporre chi ha interesse a manipolare le folle. (…) Luciano Di Gregorio fa notare ironicamente che, per uno strano scherzo lessicale, il “cellulare” ha lo stesso nome del mezzo che si usa per il trasferimento dei detenuti».

Più che strano scherzo lessicale lo definirei opera del Genio del linguaggio italiano, che spesso e volentieri è più profondo e più legato alla realtà concreta del più azzeccato slogan e del più elaborato pensiero scientifico astratto.

 


Adesso possiamo procedere a rispondere al secondo quesito che Umberto Galimberti non si pone: il progresso tecnologico-medico-sociale che sta promuovendo l’aumento della vecchiaia porta alla distruzione civile del vecchio: cosa rivela questo rapporto tra progresso e distruzione? sia nel senso di svelare sia in quello di velare due volte, di nascondere qualcosa?

Le due premesse sono state importanti perché ci hanno fatto osservare che tutta la Tecnica (meccanica, elettronica, informatica quindi anche quella medica) e tutte le innovazioni tecnologiche che hanno scandito il progresso umano degli ultimi tempi (dalla bomba atomica ai vaccini, dalla radio alla televisione, dal computer al cellulare ecc.) rivelano come costante effetto collaterale un rapporto distruttivo nei confronti dell’uomo più o meno immediatamente osservabile.

Quindi non desta meraviglia che la tecnica medica aumentando la vecchiaia dell’uomo porti con sé, pur se imprevisto ma inevitabile, anche un triplice effetto qualitativamente distruttivo:

  1. direttamente riducente la qualità della vita coll’aumento dell’uso dei farmaci
  2. indirettamente circa le aspettative di vita, con lo slittamento delle pensioni
  3. socialmente (oltre ai costi fiscali, sanitari, pensionistici) riguardo alla cosiddetta coesione sociale, col sottrarre il lavoro ai propri figli e nipoti

È come se l’uomo, ubriacato dalle meraviglie del progresso tecnologico, non volesse osservare la presenza costante di un collaterale artiglio avvelenato legato ad ogni sua progressione.

Velenosità che si manifesta non tanto nell’oggetto tecnico in sé, quanto nell’essenza autoreferenziale della Tecnica e nelle conseguenze antisociali e disumane della sua trasversale possibilità d’uso indiscriminato.

Facile osservare tale contrasto nella possibile utilità dell’energia atomica e nel suo utilizzo militare distruttivo in Giappone; meno facile osservarla, a fronte delle comodità del cellulare, nelle continue inarrestabili sollecitazioni cui ci sottomettono i call-center telefonici alla faccia della legislazione sulla privacy; ancor meno facile osservare qualitativamente questa velenosità che è presente in tutti i mezzi tecnologici di uso quotidiano (tv, pc, cellulare) e che, oltre a manifestarsi nelle varie dipendenze (di cui poi ci si lamenta), si occulta in quella zona manipolativa per cui i passivi fruitori (tutti noi) sono bombardati di informazioni che invece di orientarli li disorientano e li paralizzano.

Rendendoci di fatto incapaci di pensare con la nostra testa, ormai omologata a recettore passivo di contenuti (slogan più che pensieri) selezionati ad hoc da altri per i loro interessi culturali, politici ed economici.

Questo artiglio collaterale velenoso è la capacità del progresso tecnologico di essere distruttivo di default, indipendentemente dall’oggetto di cui si veste (informatico, medico, nanotecnologico, biologico ecc.).

Ciò che poi si vela due volte nel rapporto “progresso tecnologico e suoi effetti distruttivi collaterali verso l’uomo e il suo associarsi” è che negli ultimi secoli dobbiamo decisamente il nostro progredire evolutivo solo a forze distruttive (e non costruttive come siamo soliti pensare).

Forze che stanno sempre più velocemente emancipandosi dal nostro controllo, che stanno trasformando tutti noi in vittime ingenue, e gli specialisti (scienziati, militari e speculatori) in apprendisti stregoni.

Ora un conto è spaventarsi, dolersene e poi rifiutare tutto questo per non sporcarsi le mani [come un Bramino o un Klingsor, fate voi], un conto è prendere nota che anche le forze distruttive portano verso un’evoluzione e capire che hanno cittadinanza nel cammino sociale dell’uomo.

Per cui non vanno rifuggite per paura o partito preso, ma vanno comunque dominate dall’uomo senza lasciarle agire indiscriminatamente come vorrebbe (l’abbiamo osservato con Galimberti nelle premesse) la natura stessa autoreferenziale del pensiero tecnico-scientifico moderno.

Occorre trattare il progresso tecnologico con la stessa cauta attenzione che avremmo portando un giaguaro adulto e affamato al guinzaglio per strada, non certo lasciandolo scioccamente scorrazzare libero e bello come fosse un innocuo pulcino appena uscito dall’uovo. Al secondo esserino possiamo anche non mettere nessun un guinzaglio, ma al primo? Al giaguaro affamato? Metteremmo oltre allo strangolo la museruola e i copriartigli alla quattro zampe.

Ma la Scienza, che nella presente Società gassosa a dominanza economica ormai è totalmente asservita dalla Tecnica, non è in grado di fare questo da sé: necessita di un aiuto strutturale forte. In senso sociale le protezioni sopra descritte per immagini possiamo averle concretamente soltanto da un sistema sociale strutturato “a 3D”.

Perché solo nella Società tridimensionale dei nuovi tempi, realizzando la loro reciproca autonomia, le tre dimensioni sociali possono sinergicamente dare all’uomo quei tre doni (lo strangolo culturale, la museruola politica e i copriartigli economici): i tre strumenti di controllo della Tecnica che sono necessari per la coesione sociale umana del presente.

Se insistiamo invece a mantenere il nostro attuale sistema sociale “a 1Dimensione dominante sulle altre due” ci comportiamo come l’ubriaco che porta a spasso il giaguaro privo di strumenti di controllo e che per di più lo incita a massacrare tutti i passanti senza pensare a quello che fa: a se stesso e agli altri.

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