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Una casa per lei, un affitto per lui

Un trucco legale per mettere in ginocchio i padri


01/12/2025

di Marco Ricci


In Italia ci sono circa 4 milioni di padri separati o divorziati, secondo alcune stime giornalistiche e associazioni che offrono supporto psicologico e legale. Una parte significativa, circa 800.000, secondo alcune ricerche sociali, vive ai limiti economici, spesso costretta a trovare soluzioni abitative di fortuna. La causa? In molti casi, l’assegnazione della casa familiare all’ex coniuge, quasi sempre la madre, perché i figli vengono collocati presso di lei. La legge, infatti, non lascia spazio a interpretazioni: l’articolo 337-sexies del codice civile stabilisce che il godimento della casa familiare va garantito in base all’interesse dei figli. Nella teoria è giusto; nella pratica significa che un genitore viene spostato fuori dall’abitazione, molto spesso il padre, senza che venga considerata né la proprietà né la storia familiare. Con questo trucco hanno messo in grave difficoltà l’uomo.
Il meccanismo è noto, ma raramente discusso in modo onesto. Per anni si è dato per scontato che una madre fosse il genitore “naturale” a cui affidare i figli, nonostante non esista alcuna prova scientifica o psicologica che un padre affettuoso valga meno o possa nuocere alla crescita emotiva di un bambino. Tuttavia il sistema giudiziario italiano continua a operare come se questa idea fosse scontata. L’assegnazione della casa e il collocamento dei figli si ripetono quasi sempre nello stesso schema: la casa va al genitore collocatario, “nell’interesse dei minori”. Nei fatti, questo ha generato una disparità enorme a discapito dei padri, che si sono trovati a vivere in condizioni precarie pur avendo contribuito alla vita familiare, persino quando la casa era di loro proprietà.
L’argomento che nessuno sembra voler toccare è che la legge utilizza la parola “interesse dei figli” ma, di fatto, determina in anticipo quale genitore debba rimanere in casa. Il risultato è che molti padri, pur non essendo meno presenti o meno responsabili, vengono considerati “genitori accessori”. Di fronte all’assegnazione dell’abitazione e all’obbligo di mantenimento, molti uomini si trovano in condizioni psicologiche ed economiche drammatiche. Non è raro che debbano affrontare una seconda vita da zero con costi elevatissimi di affitto, spese legali e mantenimento. Perfino quando cercano di restare vicini ai figli, vengono spesso considerati “ospiti”, con orari da rispettare e appuntamenti schedulati come incontri occasionali, invece che come una vera presenza genitoriale.
Dovremmo avere il coraggio di affrontare un fatto scomodo: un sistema che parla di parità tra uomo e donna non può ignorare la parità genitoriale. Se si sostiene l’idea di una famiglia con due figure equivalenti, allora la legge dovrebbe riconoscere che entrambi i genitori hanno diritto alla continuità affettiva e abitativa con i figli. E che la casa familiare non dovrebbe diventare un premio o uno strumento di potere in fase di separazione, ma un luogo da gestire nell’interesse autentico dei minori, non secondo automatismi culturali.
La soluzione non può essere uno scontro tra generi, né la guerra dei sessi. Il problema non sono “le donne” o “gli uomini”. Il problema è che la struttura legale italiana continua a ragionare con un modello familiare vecchio di cinquant’anni: padre lavoratore, madre educatrice. Oggi quel modello non corrisponde più alla realtà. In questa dissonanza, a pagare sono spesso i padri, che vengono visti come figure secondarie nel rapporto con i figli proprio nel momento in cui questi avrebbero bisogno di entrambi.
È arrivato il momento di discutere seriamente di parità. Non solo sul lavoro, non solo nella rappresentanza politica. Ma anche, e soprattutto, nella genitorialità dopo la separazione. Perché un Paese moderno non può permettersi genitori invisibili. Né padri sfrattati in nome dell’interesse dei minori. E nemmeno madri trasformate in “uniche custodi” da una legge che non lascia spazio alla libertà e alle responsabilità condivise. Se vogliamo parlare di parità, allora dobbiamo avere il coraggio di guardare anche a ciò che è scomodo. E soprattutto, dobbiamo iniziare a dire che la parità genitoriale non è una battaglia di genere: è una battaglia di civiltà.

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