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Democrazia è bello: l'aspettativa unilaterale-politica malsana

Vademecum per giovani (e non più giovani) risanatori sociali: parte terza


21/01/2018

di Andrea di Furia

Tra i vari “Se fossi io al potere, ci metterei un niente a sistemare tutto quello che non funziona” non possono mancare i più sensibili all’onda di democratizzazione che da svariati secoli investe l’Umanità mondiale ed è culminata nella Rivoluzione francese. Sono quelli per cui è vero solo un terzo del triplice motto rivoluzionario: Égalité. Per i quali Liberté e Fraternité sono solo delle fastidiose sfumature del concetto di Eguaglianza.

Per loro “Democrazia è bello!” è l’unico ideale sociale da perseguire. Ed è sotto l’ombrello egalitario della Democrazia che vogliono sperimentare le soluzioni più incentrate sulla Comunità dei Cittadini e sui loro diritti e doveri, perché in maggiore sintonia con l’aspettativa unilaterale-politica da cui sono animati.

Per inciso in Italia questa pletora di entusiasti riformisti sociali – con la sola eccezione (naturalmente incompresa perché per loro inarrivabile) di Adriano Olivetti, che invece riconosceva valido per intero il triplice motto rivoluzionario – ha imperversato senza museruola e guinzaglio per 150 anni: dall’Unità risorgimentale fino all’avvento di Mario Monti, il testimonial autoctono della Finanza internazionale, emerso improvvisamente come un fungo alla luce del Sole della politica italiana nel 2011.

Ma non parleremo dell’Italia, su cui tutti hanno inevitabilmente la loro personalissima opinione gratuita da esternare. Continueremo ad osservare l’Algeria - sempre sistematizzando le informazioni tratte dal reportage La paralisi algerina su Internazionale del 7/14 dicembre 2017 – che il 23 novembre 2017 è stata chiamata a eleggere i consiglieri comunali [affluenza 44,9%] e provinciali [affluenza 46,8], subito dopo le elezioni delle assemblee legislative di maggio dove aveva votato un misero 35,5% degli elettori, rispetto al già misero 43% del 2012.

Con questi numeri di affluenza che rispecchia il fiacco andamento dell’attuale vita politica mondiale – anche le elezioni legislative di mid-term americane registrano (nel 2014) una stanca affluenza del 43%, e poco meglio vanno quelle francesi del 55% - è facile diagnosticare un crescente malessere sociale della Democrazia. Ce lo facciamo spiegare meglio da un professore dell’Università di Algeri.

Nadji Safir: «Il male di cui soffrono lo Stato e la Società non è nuovo né sconosciuto. Si chiama “patto sociale della rendita”, e può essere di due tipi. La prima rendita è di natura storica, e ha finalità politica. Si basa cioè sulla storia della lotta contro il Colonialismo, che ha creato la memoria e l’immaginario [come da noi l’Antifascismo] di generazioni di militanti e di cittadini. Negli ultimi decenni i leader politici hanno sistematicamente strumentalizzato questo passato per affermare [esattamente come da noi] il loro potere e per giustificare la loro permanenza ai vertici, e il loro immobilismo. La seconda rendita è economica, e la sua finalità è sociale. Si basa sull’estrazione e l’esportazione degli idrocarburi».


Del secondo tipo ce ne siamo già occupati, qui approfondiremo soltanto il primo tipo di rendita. In Algeria lo Stato è il più importante datore di lavoro, con 2 milioni di dipendenti, e ha istituito un megafondo di 500 miliardi di $ da usare in 10 anni. Racconta un ricercatore in sociologia: “Ricordo che le mie cugine hanno avuto un aumento di stipendio retroattivo su tre anni”.

La Polizia (200.000 uomini), altro importante ingranaggio del potere, ha ottenuto nuovi fondi e dotazioni; per non parlare dell’Esercito, altro tassello indispensabile, le cui spese militari in 10 anni (2002-2012) sono quadruplicate: da 2,7 mld a 10,8 mld di $.

Pure il trattamento ai reduci della guerra al Colonialismo è stato triplicato, per sostenere un’altra delle colonne portanti dei due partiti al potere: il Fronte di Liberazione Nazionale del Presidente Abdelaziz Bouteflika e il Raggruppamento Nazionale per la Democrazia del Primo ministro Ahmed Ouyahia. I quali condividono tutte le leve di un potere che, ininterrotto da un ventennio, proprio democratico non può certo più essere considerato.

Ma oltre alla leva economica, per le necessarie redistribuzioni che garantiscono la sopravvivenza del regime, neppure si è trascurato l’importante peso dell’àmbito culturale-religioso dove il 99% dei Cittadini è di fede islamica, e l’1% si divide tra la cattolica e l’ebraica.

Qui la situazione politica si fa più opaca, se si rammenta che nel 1990 il Fronte Islamico di Salvezza (FIS) aveva vinto le elezioni con il 54% dei voti e che nel gennaio 1992 fu spazzato via dal golpe dei militari con arresto e condanna al carcere dei suoi capi: dando il via alla guerra civile algerina che sostanzialmente finisce nel 2003 con la loro liberazione.

È vero che al potere oggi ci sono sempre i due partiti del Presidente Bouteflika e del Primo ministro Ouyahia e tuttavia il FIS salafita, pur spazzato via dall’orizzonte politico, ha continuato ad operare nella società civile algerina divenendo il punto di riferimento della maggioranza delle Moschee. Si calcola circa il 70% di questi luoghi di culto, che in vent’anni sono raddoppiati passando da 10.000 a 20.000. In più risulta governare la maggioranza delle attività commerciali informali, che valgono intorno ai 50 mld di $: quasi il 30% del PIL algerino (168,3 mld di $ nel 2016).


Non è dunque un caso se il Presidente Bouteflika ha dato il via ai lavori di costruzione della Grande Moschea da 120.000 fedeli sulla strada dell’aeroporto di Algeri – una volta ultimata sarà la terza per grandezza dopo Mecca e Medina - come osserva un sociologo locale.

Mohamed Merzouk: «Tutto indica che l’islamizzazione avviata dal FIS non si è esaurita con la sua scomparsa dalla scena politica. FIS che ha promosso una versione banalizzata della religione, ridotta al rispetto di una serie di rituali. Ma anche il modo in cui il potere statale ha gestito l’Islam rafforza questo tipo di religiosità. In cerca di una nuova legittimità, il Governo ha cercato di superare gli islamisti nel loro stesso campo».

Sostanzialmente in Algeria, un tempo rifugio di rivoluzionari dei Paesi in via di sviluppo e modello di politiche progressiste, è stato fatto di tutto e di più per permettere al regime – sempre gli stessi politici con i loro incartapecoriti seguaci [altro film già visto anche qui in Italia] - di restare al potere senza affrontare gravi crisi.

In questa situazione di grazia clientelare le primavere arabe sfiorano appena l’Algeria e un giornalista commentando i bei tempi andati, prima della crisi petrolifera del 2014, lo spiega così: “Eravamo nell’età dell’oro di un’economia tipicamente algerina: la corruzione redistributiva”.

Ma adesso il vento è cambiato per il crollo del prezzo del petrolio. Adesso l’Algeria, gestita da mezzo secolo dai “Se ci fossi io al potere” il cui credo riformista è “Democrazia è bello”, risulta essere in mano a tenaci oligarchie di regime che operano attraverso una sistematica “corruzione redistributiva”. Anche qui tutto nella norma e in linea con le contemporanee Democrazie mondiali.

Non c’è verifica migliore del fatto di poterne vedere l’effetto su di un altro Paese per poter comprendere quanto sia malsana e illusoria l’aspettativa unilaterale-politica. La solita richiesta che si sente in Tv di un ritorno "all'Alta politica" partita lancia in resta per tutelare la propria Comunità nazionale [qui da noi adesso contro gli insensibili Burocrati della UE] finisce, invariabilmente, per ritrovarsi a tutelare una ristretta nomenclatura di imbolsiti maggiorenti.

Se ora pensiamo all’Italia - dove questi “Se ci fossi io al potere” hanno fatto il bello e il cattivo tempo, nella politica del Paese, otto volte tanto le attuali nomenclature algerine proponendo per un secolo e mezzo, e in tutte le salse, il tormentone “Democrazia è bello” – non è che per caso, a riprova, ritroviamo anche qui una più che consolidata tendenza alla “corruzione redistributiva”?

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